[di Maurizio Micheletti]

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Dopo aver curato la traduzione italiana de Il canto del pane, edita da Guerini e Associati nel 1992, la professoressa Antonia Arslan si dedicò all’antologia oggetto di questa nota di lettura, cioè Mari di grano e altre poesie armene (Edizioni Paoline, 1995), per offrire ai lettori la possibilità di scoprire altre opere di Daniel Varujan, una voce poetica capace di unire tradizione e modernità, fede profonda e amore per il suo popolo.
Nato nel villaggio di Perknik, in Anatolia, Varujan (1884-1915) fu un poeta e un martire del genocidio armeno. La sua storia personale, come afferma Arslan nella prefazione, è “esemplare di tragedia e di passione”. A soli dodici anni, si recò a Costantinopoli con la madre alla ricerca del padre, imprigionato e poi ucciso dal regime del “sultano rosso” Abdul Hamid. Questa dolorosa esperienza e il clima di persecuzione che incombeva sul suo popolo, segnarono profondamente la sua sensibilità e l’intera sua opera.
La sua formazione culturale si svolse tra Costantinopoli, Venezia e Gand. Dopo gli studi, tornò in Turchia e si immerse attivamente nel vivace dibattito politico e culturale del cosiddetto “risveglio culturale armeno” degli anni 1908-1915, un periodo di grande fermento sorto all’indomani della Rivoluzione dei Giovani Turchi, che suscitò grande entusiasmo alimentando la speranza di un futuro di pace tra le varie etnie che popolavano l’Anatolia. Tale speranza, condivisa apertamente da Varujan e da molti intellettuali armeni, fu però tragicamente tradita: il movimento dei Giovani Turchi, che inizialmente aveva ripristinato la Costituzione ottomana aderendo a ideali liberali, deviò presto verso posizioni oltranziste e autoritarie, miranti a formare uno Stato linguisticamente e culturalmente omogeneo, una visione inconciliabile con la pluralità etnica che allora popolava il paese, e che portò infine ai tragici eventi del genocidio (è utile ricordare che la parola “genocidio” fu coniata solo dopo la II guerra mondiale e che l’Italia ha riconosciuto il genocidio armeno nel 2020).
Nelle sue opere poetiche, Varujan riuscì a creare una sintesi stilistica originale tra Oriente e Occidente: la sua poesia è una “straordinaria fusione” tra “l’esuberante ricchezza di immagini e la concretezza tutta visiva della fantasia orientale, con l’educazione e le suggestioni della cultura occidentale”. La sua adesione alla causa della rinascita della cultura armena fu totale e si manifestò nella pubblicazione di due raccolte che riscossero grande successo: Il cuore della stirpe (1909) e Canti pagani (1913). Queste opere mostrano la sua incredibile forza poetica, tutta votata a celebrare e a riscoprire le radici del suo popolo, proprio nel momento in cui stava per essere crudelmente soppresso.
Per Varujan, la poesia non è una mera espressione estetica, ma una forza vitale, una linfa che nutre e plasma l’essere, un’energia potente capace di ricondurre l’essere umano ad una profonda conoscenza di sé e del mondo. Anche di fronte all’orrore, come si legge nella prefazione, “mai egli cedette alla tentazione dell’odio o del sentimentalismo rancoroso, o ai luoghi comuni del vittimismo sterile”.
Nel suo capolavoro rimasto incompiuto, Il canto del pane, (presente per intero nell’antologia), il poeta incarna ruoli diversi e complementari: è il contadino che si fonde con la terra grazie ad una forza virile e primordiale; è il cantore e il mistico contemplativo che trae ispirazione dal lavoro nei campi; infine, è il vecchio padre che, nella lirica “Benedizione”, narra le storie della sua famiglia, conferendo un senso di continuità e di futuro attraverso la parola benedicente. Ne Il canto del pane, Varujan ha celebrato con forza luminosa i simboli e i riti del cristianesimo armeno, scorgendo in essi la solida roccia su cui il suo popolo perseguitato avrebbe potuto rifondare la propria eterna speranza. Per Varujan infatti, la terra, il grano e il pane non sono solo elementi della vita agricola, ma simboli identitari della fede di una comunità: la terra rimanda alla Vergine, il grano e il pane, offerti – come accade nella liturgia – quali “frutto della terra e del lavoro dell’uomo”, costituiscono un richiamo evidente al sacrificio eucaristico, e quindi ad una salvezza, sia pur “pagata a caro prezzo” (citando dal titolo del saggio critico di Piersandro Vanzan, presente nell’antologia).
L’opera poetica di Varujan fu interrotta bruscamente dagli eventi che si consumarono nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, data che segnò l’inizio del genocidio del popolo armeno.
Nel corso di quella notte e nei giorni successivi, l’élite culturale e politica di Costantinopoli, di cui faceva parte anche Varujan, fu arrestata e deportata. Il poeta venne brutalmente ucciso in uno degli ultimi giorni d’Agosto di quello stesso anno, a soli 31 anni, nel pieno della maturità artistica. Prima di essere arrestato, aveva in proposito di completare Il canto del pane per riunirlo a un’ulteriore opera che avrebbe voluto intitolare Il canto del vino. Secondo alcuni testimoni oculari, Varujan si avviò alla deportazione con le poesie in tasca, e fino al giorno della morte cercò sempre di scrivere. La sua tragica fine fu l’opposto dei luminosi cicli di “morte e rinascita” che aveva cantato nel suo ultimo lavoro, ma, come ha scritto la professoressa Arslan nella prefazione, c’è motivo di credere che “morendo, e bagnando del suo sangue quella terra che amava, si sia infine abbandonato a quell’abbraccio ricordando la forza immortale della poesia e dello spirito”. La Arslan paragona Varujan a un “Lorca d’Oriente”, il cui percorso poetico, dalle prime poesie di protesta lo ha portato a riscoprire le tradizioni primitive del suo popolo, per approdare alla fede dei suoi padri ed evolversi fino a giungere ad una profonda “serenità spirituale e pace interiore”.
L’antologia Mari di Grano e altre poesie armene raccoglie complessivamente cinquanta poesie: venti provengono dalle sue tre raccolte pubblicate in vita: Fremiti (1906), Il cuore della stirpe (1909) e Canti pagani (1913). L’opera principale, Il canto del pane (incompiuta e pubblicata postuma), è presentata per intero e completata idealmente da “Antasdan (Benedizione per i campi dei quattro angeli del mondo)”, una lirica affine che il poeta compose nel 1914. Nelle pagine di prefazione si sottolinea come durante la stesura della traduzione italiana, si sia cercato di rimanere fedeli alla tessitura originale dei componimenti, rispettandone le ripetizioni di parole-chiave, i ritornelli e le peculiarità onomatopeiche e di punteggiatura che conferiscono loro uno stile “nitido e musicale”. A impreziosire l’antologia vi è una serie di illustrazioni che riproducono le incisioni rupestri (V-II millennio a.C.) provenienti dalla provincia di Sissian, nella regione di Siunik in Armenia, raffiguranti scene di caccia, l’aratro, figure umane e simboliche, croci e animali.
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Riferimenti editoriali: Mari di grano e altre poesie armene, Daniel Varujan, a cura e con introduzione di Antonia Arslan, con un saggio di Piersandro Vanzan, traduzione di Antonia Arslan e Alfred Hemmat Siraky, commenti alle poesie di Siobhan Nash-Marshall, collana “La parola e le parole”, Paoline editoriale Libri, Milano, I edizione 1995
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Una selezione di testi dall’antologia
Da: NELLA PRIGIONE DI MIO PADRE
[…] Oh triste ora: ti raccontai ad uno ad uno
i neri eventi di casa nostra,
la morte della nonna, della mamma la sorda tosse
nel silenzio della notte:
ti dissi che sul nostro tetto, sotto la luna,
danzano i gufi,
che quest’anno la nostra rosa è morta
per lo scirocco del cimitero.
Tu mi ascoltavi, e mi facevi domande,
quando un ordine selvaggio,
un cieco ordine venne a dividerci…
Rientrasti… senza un bacio…
E io a lungo dietro fissandoti,
padre mio, da solo là ti piansi:
e mentre un rancore nuovo mi squassava il petto
spremetti dagli occhi il mio cuore.
… Oh vita dell’amore, petto intriso di sudore, cuore della spina,
eucaristia gettata nel fango,
chiuse alle calde correnti del sole
oh vene asciutte.
Vidi che con voi, con voi vennero immersi
nella strage, perseguitati,
i santi di tutte le religioni, tutti i gigli
ed i Gesù sputacchiati.
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Da: TU SEI BENEDETTA TRA LE DONNE…
[…] Contemplo, ora, la consunzione soave del tuo volto
e, attraverso la tua camicia aperta, i seni dove
la tua vita si condivide, e tu
dividendoti diventi madre.
In ciascun battito della tua vena io sento
il palpito del mio stesso cuore
e lo sbocciare del fiore del mio sangue,
il cui profumo inebria me e te,
ed è l’amore di noi due.
Sii benedetta, Maria,
tu che con infinita tenerezza
la tua costola mi doni, e le tue ossa
per altre ossa spremi,
tu che diventi il solco
più puro e più fertile di tutti,
e il vaso più bello di tutti
i vasi dei gigli,
sii tu benedetta, in eterno.
[…]
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PAPAVERI (da: IL CANTO DEL PANE)
Cogli, sorella, questi papaveri nel recinto –
sanguinanti come cuori innamorati.
Nelle loro coppe di cristallo
berremo l’onda del sole.
Tanto divampano di fiamme
che il loro incendio brucia i campi sterminati.
Nelle loro coppe di fuoco
berremo le scintille delle stelle.
Cogli, sorella, come la quaglia nascosta
tra i grani che dolcemente vezzeggiano.
Nelle loro coppe scarlatte
berremo il sangue dei solchi.
Chini sui nidi delle allodole
fluttuano come grappoli di raggi rossi.
Nelle loro coppe rubino
berremo la promessa della Primavera.
Cogli, sorella, non i papaveri, ma la fiamma;
avvogli del loro incendio il tuo grembiule verginale.
Nelle loro coppe delicate
berremo i fuochi di giugno.
Fiori sbocciati sulle tue tenere labbra,
conversano con il grano vibrante.
Nelle loro coppe purpuree
berremo il mistero delle spighe.
Coglili, sorella, perché di essi c’incoroneremo
per la gioiosa festa di domani, al villaggio.
E in queste coppe, danzando,
berremo il vino dell’amore.
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CROCE DI SPIGHE (sull’Altare della Vergine)
(da IL CANTO DEL PANE)
Ti offro, Madre, le primizie dei miei raccolti.
Consacrale sul tuo altare dove, da secoli,
le cere bionde dei miei alveari
diffondono luce e lacrime.
Tu, santa protettrice delle terre dei miei padri
ai quali hai concesso l’immortalità del Paradiso;
il bocciolo hai reso fiore, la speranza un’Aurora
che sorride alla mia capanna.
Tu, questa croce di spighe, intrecciata con le mie mani,
accetta, Madre. In mezzo al mio grano
esse oscillavano come vergini dai capelli rossi,
traboccanti di sole e mature.
Sotto la mia falce, con la brina ancora sul capo,
cadono come un raggio mietuto dalla luna.
Nessuna allodola ha distrutto col becco
le loro fila intatte.
Io le ho intrecciate, chioma su chioma,
nella croce di tuo Figlio ferito a morte
il cui sangue, fuoco santo di ogni Pasqua,
bevono i nostri solchi.
L’ho intrecciata con le mie speranze, coi miei desideri:
la linfa dei campi, il fuoco del sole,
il lampo del vomere e lo slancio del mio braccio virile,
la preghiera dei miei nipoti.
Madre, benedici questa croce di spighe; e dona ai miei campi
un’estate d’oro e una primavera di perle;
più i miei granai saranno colmi, più le fiaccole
daranno luce al tuo altare.
Fa’, ti prego, che – come nei giorni antichi –
quando di campo in campo verrai a passeggiare
le spine non sfiorino i tuoi piedi, ma solo papaveri
frementi come il nostro cuore.
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