Silvia Rosa e l’ombra dell’infanzia

By

Presentazione: questo sabato, 6 dicembre, alle ore 18,30 presso la Casa della Poesia di Torino, in via Dego 6. Periferia Letteraria, con Silvia Rosa e Anna Segre. Presenta Patrizia Camedda.

*

Leggere L’ombra dell’infanzia di Silvia Rosa (peQuod 2025, Collana Rive, postfazione di Franca Alaimo) catapulta il lettore/la lettrice nel buio bosco del tempo e della spazio, là dove procedono in fila indiana le figlie del mondo, le fanciulle abusate che illuminano ipotesi per una strategia di ribellione, quelle che si rifiutano di varcare ancora e ancora la soglia del regno di Ade. Nel bosco nero delle anime innocenti ci sentiamo perduti  ma al contempo ritroviamo i rassicuranti pericoli di sempre: i Mostri madri e i Mostri padri delle trame famigliari.

Tutti i divoratori di bambine mostrano almeno due volti. Un profilo è quello dell’Orco fallico, l’altro sfoggia lineamenti matrilineari. 

Scrive l’autrice: 

(…) non credere a fiabe menzognere…

Il “rapimento”, lo stupro simbolico, il ratto: l’atto che strappa la Vergine archetipica dalla madre è un nodo della via iniziatica femminile (si veda, ad esempio, B. A. Te Paske, Il rito dello stupro, Red Edizioni, 1999), ma il suo substrato è troppo spesso concreto, è un concentrato incestuoso che si reitera in loop nelle generazioni umane. 

Se il sacrificio emblema di tutte le iniziazioni abita la psiche collettiva, si può trasformare nella coscienza individuale, nella consapevolezza dell’essere diventate adulte. Quando il simbolo è stato vissuto come segno dentro il corpo, è un’impresa da grandi eroine il nutrire la possibilità di esprimersi, il dirsi e darsi consenzienti o meno all’Altro/a da sé, allenare la forza per difendersi con arco e frecce, con penna spada, modificando, per quanto sia possibile, la mappa del bosco.

Quando l’archetipo della Madre divorante – anche se vestita di disinteresse resta tale – e il violento uroborico Padre – o patrigno che sia – mordono la propria coda, si avvoltolano venefici e richiamano la bambina all’investimento incestuoso. La bambina abusata è cosa loro. Oggettivata bambola, la sua è una poetica del non poter essere Una-in-se-stessa perché reificata. 

Chi rapisce Core, dunque, chi la strappa dal pre-erotico, se non il Fallo ctonio che mira a tenerla per sempre piccola e indifesa, restituendola di tanto in tanto alla genitrice muta di fronte all’artefice del martirio? La bambina come una palla viene giocata da entrambi. Un po’ a me, dice la Madre. Un po’ a me, dice il Padre. Mai a sé stessa. 

Per osservare il tema della violenza contro i cuccioli (femmine e anche maschi uman-animali) dobbiamo, a parer mio, indossare due lenti: 

  • una ci permette di guardare il mondo esterno, i casi di cronaca, la disfunzione delle famiglie, i nuclei magmatici di qualsiasi epoca, appartenenti a qualsivoglia status sociale;
  • l’altra lente è profondamente simbolica e appartiene alla cultura occidentale così come al resto del mondo, nel tempo che ha segnato e ancora traccia la formazione dell’umanità.

Con la prima lente si rabbrividisce di rabbia seguendo le nursery rhymes del maleficio vissuto dalla bambina protagonista dell’opera trasformativa di Silvia Rosa. Si vorrebbe intervenire magicamente in quel là e allora, proteggere la vittima portandola via, sferrando pugni, magari, cambiando con un deciso «no!» il corso degli eventi. 

Si pensa a Fortuna Loffredo, tra le molte colombe abusate, passerotto dalle ali spezzate strappata alla vita dal vicino di casa. Si pensa allo sguardo spento di tante donne di ieri e di oggi troppo occupate a spalleggiare i padri, i mariti, i nuovi compagni. A quelle madri senza occhi che permettono ai conquistatori di uccidere i piccoli per farsi padroni, si pensa. 

[… un padre 

finto, posticcio, impostore, un fantoccio 

dalla voce imponente, un niente… ]

(Silvia Rosa)

Con la lente archetipica, invece, si contano sulle dita le fiabe nelle quali i bambini e le bambine hanno imparato a uccidere gli Orchi. Il lupo e i sette capretti delle foreste del Nord. Le più recenti eroine, tutte Artemide/Diana capaci di trasformare in cervo lo stupratore, per farlo dilaniare dai cani e ridere, e godere della vittoria sul nemico – finalmente.

Si pensa a Pelle d’asino, la principessa che sfugge alle grinfie del re-padre abusante e al suo potere saturnino, proprio grazie alla pelle del magico animale, rappresentante di una sessualità domata.

Nella fiaba il lupo nero aveva in pancia 

un firmamento di sassi accesi, era

la radiosa fine del vissero felici e contenti

di quel per sempre balbettato.

Ma poi scoprire nel lamento dei colombi,

nelle scaglie scolorite di un pesce 

che fa la ronda in una brocca sporca,

tutta l’illusione sfarinata di un perfetto ordine

la luccicanza aspra di un finale

in cui il taglio netto apriva le tue viscere

e dentro solo una distesa di papaveri

– sangue del tuo sangue.

(Silvia Rosa)

Ci si allea senz’altro con i punti del Decalogo offerto dall’autrice a tutte noi. Un manuale poetico a uso d’anima per risolvere forse oggi, qui e ora, il già scritto. Per far sì che il sangue versato in inchiostro trasmuti là e allora – non in vendetta, bensì in giustizia. Con la spada e con la bilancia, con la penna a pesare il cuore, rintracciare gli snodi della storia e ritracciarla.

Tenendo conto delle difficoltà naturali insite in tutte le sorellanze umane – potremmo senz’altro dire in tutti i gruppi -, si punta comunque all’autocoscienza, al miglioramento della nostra formazione come individui e come donne, all’evoluzione della simbolica femminile nella psiche  di tutte e di tutti. Donne e uomini devono guardare e, soprattutto, vedere.

Un’ape allucinata che sbatte contro i vetri,

febbre che arrossa le guance, notte che

batte sui denti cariati. Sono questi i mali 

rappresi in segni violacei sul rosa

delle albe d’infanzia, i guasti delle

lucciole che muoiono discrete sotto una 

brina spessa. Io vorrei dire invece

lo strappo delle ali che buca la schiena,

la perdita del corpo un pezzo dopo l’altro

sotto il peso di un nome di fango e resina,

che lascia addosso un’onta indelebile 

e in gola un fiore di spavento: vorrei 

raccontare di come cresce nelle sere 

di luna piena, cambiando colore e di come

diventano le mani di una bambina quando

scavano in bocca una fossa di silenzio.

*

Estratti dal volume:

Al centro della silloge si colloca la narrazione di una vicenda di abusi infantili: l’esito poetico sul tema della violenza prende spunto da un lavoro di ricerca che da tempo spinge l’autrice a indagare in ogni possibile direzione testimoniale, permettendole di attuare un serrato confronto con una pluralità di destini e di analizzare quel male all’interno di una cornice etico-sociale-culturale di più ampia riflessione. Orchi, matrigne malvagie, abbandoni, prigionie, avvelenamenti, incantesimi, c’è tutto il repertorio fiabesco, ma rielaborato in chiave lirico-saggistica, a capovolgere la falsa immagine, così cara anche alla pubblicità, della famiglia standard. Distrutte per sempre la gioia e la leggerezza, crolla, inevitabilmente, anche il lessico infantile nella nominazione del mondo: la poeta lo carica di lemmi grevi, inventa metafore dolenti e si avvale di una simbologia trasfigurata. In questa scrittura coraggiosa, che veicola un forte messaggio politico, il linguaggio diventa strumento di elaborazione e risignificazione divergenti, rispecchiando una verità più intima e profonda di quella che la superficie della realtà sembra suggerire.

*

In un quartiere popolare i palazzi sono

alte torrette di guardia, occhiute, in cui

si annidano parole feroci e l’odore

del latte e caffè che sborda da pentolini

anneriti. Al cospetto delle loro ombre,

la bambina impugna la sua bici e pedala 

lontano, precaria, verso un lembo di piazza 

spopolata, asfalto e rifiuti, dopo il mercato 

rionale. Le ore scardinate e messe in pausa, 

la tregua al sapore di Big Babol panna e

fragola che si mischia alla saliva amara, 

ruggire piano, sentirsi peso piuma contro 

le ingiurie che a casa sbottano improvvise, 

poi l’inciampo, l’urto, la scorza delle mani 

sbucciata, le ginocchia in fiamme, una fitta 

a fior di pelle, accucciata a terra la bambina 

non piange, attende che il dolore passi, 

si fa gomitolo e poi biglia e immagina 

di risplendere nell’aria pallida di giugno, 

veloce come scheggia, sfaccettata, 

un festoso globo di vetro disossato, un sole 

precipitato nell’indifferenza di tutti.

*

C’era una volta una bambina e c’erano 

con lei le sue sorelle di sventura, tutte sole 

in un bosco blu cobalto, nell’ora in cui scocca 

la tormenta. Nel fragore ultraterreno dei tuoni 

e nel fiammeggiare del cielo viola, vagavano 

senza battesimo nella chiarissima certezza

che se dio esiste, non è per loro. Una supernova 

atterrata con clamore nella radura più cupa 

– una pluviale valle di lacrime mai versate, se non 

nel segreto di una stanza chiusa – proiettava

intorno un brillamento da guerra nucleare, 

un trilione di lucciolii da dare il vomito. La fauna, 

persino il lupo dai denti aguzzi, stava alla larga, 

del resto la schiera delle bimbe era un vibrante 

esercito di fantasmi. Una foschia si alzò dal verde 

marcio in cui affondavano i talloni e nella spirale 

del mese di maggio si aprì una voragine, la vigilia 

boreale di un passaggio, altrove. Sorelle, non c’è 

una ragione se è capitato a noi questo morire restando 

in piedi, abbarbicate alla cima delle nostre storie 

amare. Ma per il lieto fine non occorre alcun 

lasciapassare, è già nostro, l’abbiamo barattato

con l’ombra dell’infanzia in cui ci siamo perse.

Notizia biobibliografica:

Silvia Rosa nasce a Torino, dove vive e lavora come docente. Ha esordito in poesia nel 2010 con il libro Di sole voci (LietoColle), a cui sono seguite le raccolte poetiche SoloMinuscolaScrittura e Genealogia imperfetta (La Vita Felice 2012 e 2014), Tempo di riserva (Ladolfi 2018) e Tutta la terra che ci resta (Vydia 2022). Ha curato i volumi antologici: Bestie. Femminile animale, di cui è anche coautrice, e Confine donna: poesie e storie di emigrazione (VAN Editrice 2023 e 2022); Maternità marina (Terra d’ulivi 2020), con sue immagini fotografiche; Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici (La Recherche 2017), per il quale si è occupata anche delle traduzioni in italiano. Ha scritto il saggio di storia contemporanea Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960) (Ananke 2013) e la raccolta di racconti Del suo essere un corpo (Montedit 2010). Le sue poesie sono state tradotte e pubblicate in diverse lingue, tra le altre: spagnolo nella silloge Tiempo de reserva (Ediciones en danza, Buenos Aires 2022), romeno nella plaquette Treceri (Editura Cosmopoli, Bucarest 2023) e inglese nell’antologia Look what I did about your silence (El Martillo Press, Los Angeles 2025).

Posted In ,

Lascia un commento