
Note d’arcani per
“Dialoghi con Amin“, di Giovanni Ibello, Crocetti Editore.
(articolo di Valeria Bianchi Mian)
- <per arcani frammenti>
Nei Tarocchi di tutti i tempi la Luna (XVIII) si manifesta e al contempo cela le proprie fattezze in un carillon di ombre marine e terrene.
Il paesaggio arcano dai Trionfi viscontei ai marsigliesi, fino alle più moderne rappresentazioni della diciottesima icona, evoca per lo più i confini psichici, la linea maginot tra la coscienza e il sogno. A guardia del portale ci sono torri e cani, c’è il dominio della semioscurità. In questo scenario di magia notturna trovo il palco per collocare la silloge di Giovanni Ibello, ascolto la musica dei mondi cantati dal poeta. Guardo versi emergere dai flutti così come vedo sorgere il mistero crostaceo che va palesandosi nella lama. Del testo osservo ogni angolo, sorvolo le pagine bianche, catturo i tratti neri che costellano i fogli e pesco nel dialogo poetico una filosofia di creature mercuriali che solo per un istante ricambiano il mio sguardo. Le scorgo, ermetiche tracce, impronte nella sabbia, passi dotati di un lume che, se riluce argenteo per lasciarsi cogliere, è solo per rituffarsi meglio nel fondo del buio con guizzo di scaglie, fuggendo ogni certezza.
Già Milo De Angelis anticipa l’idea del Mercurius Duplex evocando un düreriano Paedogeron quando definisce Ibello “il più antico dei nostri giovani poeti”, suggerendo la saggezza archetipica coltivata dentro la “parola conficcata nei nostri giorni”, nella parola metaforica che “connette creature infinitamente lontane tra di loro”, quali ad esempio: “flagelli di margherite”, “l’alba dei rasoi”.
Nel percorso dei versi ibelliani, la mitopo(i)etica dell’eterno indifferenziato, connubio atavico tra gli opposti prima che i due diventino tali per separazione, per conflitto, echeggia in me. Carl Gustav Jung, prima, seguito da Erich Neumann, Esther Harding e da tanti altri psicologi analisti, racconta l’epopea della coscienza umana nel suo farsi altro rispetto allo stadio uroborico dell’amore primigenio. Nell’abbraccio della Grande Madre ogni Io rischia di soccombere prima ancora di essere tale, prima di respirare l’aria eroica dell’ipotesi individuativa: restare per sempre nel cerchio chiuso della Terra-Luna oppure rivolgersi al Sole? Il passo successivo aprirebbe ulteriori domande, quali ad esempio: una volta raggiunta la separazione cosciente è possibile un novello ed ecologico ricongiungimento, la relazione feconda tra corpo, anima e spirito? Ma questo è un altro tempo da dedicare alle operazioni alchemiche.
A coadiuvare il moto della psiche dall’abbraccio alla differenziazione, il dio psicopompo e paroliere arriva in aiuto degli adepti dell’arte regia, così come giunge in soccorso dei poeti. Hermes stesso è poesia e sa rimescolare lettere per trarne versi idonei al dialogo tra l’Io e l’inconscio, stanze metaforiche adatte al potenziale incontro. Non a caso scelgo adesso il termine potenziale, poiché nel confronto tra i piani del mondo interno non è data né obbligata la coniunctio, quando a guidare una creazione è, appunto, l’elemento argento vivo che sa essere al contempo venefico e balsamico, soprattutto del caso in cui il Mercurius si associ alla sostanza salina della Luna, al pathos dell’esperienza.
Sin dall’inizio in Dialoghi con Amin odo il canto tragico di un’alba che potrebbe, nel viaggio attraverso i quattro angoli della silloge, non farsi mai.
Governerebbe la Luna – nera, mezzaluna – senza portare al Sole. Si aprirebbe il dialogo universale senza conclusione, restando il dubbio vivido del senso di colpa insito in ogni umana nascita. Senza redenzione.
Nella prima parte del poema (Yucatan, La poesia è un lunghissimo addio) le immagini senza pelle si rivelano sanguigne per tornare a nascondersi, sempre fluttuanti, come un feto nel Vas, e suggeriscono un silenzio sub rosa che conserva il senso della ricerca.
“Cercava la risacca delle pinete
fiutava l’ombra di un ago sul fondale,
la panacea di un abbandono.”
E ancora:
“Ma in questo valzer di occhi crociati
non dire una parola,
non parlare.
Troveremo un altro modo per fare alta la vita.”
Quando non è muta, la parola si offre “feroce”, quale eco del “grido” suggerito dal poeta, nella tensione tra l’ideale – fare alta la vita – e il paesaggio sublunare.
“Ci lega la parola feroce,
una giostra di penombre.”
Nella penombra, ancora, si muovono i testi di Ibello, liminali rispetto all’idea dell’alba come un segno di pericolo, ritratto borderline del giorno come meta radioattiva. Si attiva in me con potenza sfacciata l’immagine elemento Puer che in ogni creatura umana arriva ad affrontare il compito principale della vita: accogliere o meno il sacrificio del divenire se stessi, l’uscita violenta, trasgressiva, impietosa dall’uroboro materno e paterno per conoscere l’eroe nello specchio e girare la carta del Sole, arcano XIX. È l’eco che mi arriva attraverso l’intuizione quando leggo versi accesi, fiammei, come:
“Amin, è quasi giorno,
ecco l’ignota rovina.”
E ancora:
“Belve cadenti
questo è il solo nostro arsenale:
il daimon dello spreco”
e ancora, frammentando:
“l’amore è la mia tirannia.”
Le icone potenti – echi di archetipi/noumeni inafferrabili ma riverberanti nelle immagini archetipiche/fenomeni che possiamo umanamente cogliere, richiamano simbologie accese, quali il
“Dio, gheriglio di stella”
che possa insegnarci “a svanire / poco a poco”, o gli astri psichici, “luna nuova”, “alfabeto senza luna” e Sole.
“Adesso è tutta luna nuova
mentre ancora
tiri a sorte la vena
dio anatema”
(…)
Dio si offre a noi, nella poetica di Ibello, come essere sostanziale che “scalcia nel grembo della cancellazione”, e “dio demente”, e ancora “dio dei deserti”, “dio delle cose lontane” che può essere ancora trovato.
Già barlumi introducono l’arcano Stella (XVII) e sono parole gonfie di natura verdeggiante che trovano presenza dialogica – “mezzaluce”, “Mesopotamia”, offrendo potenziali alchimie di suono, alludendo a un futuro Sole psichico che sappia trasformare il concetto dell’essere “solo” in luce. Ma gli accenni nigredo sono “foresta di spine nel buio oltremare”.
Nei Tarocchi il Sole permette l’incontro dell’Io e dell’Altro, come si evince dall’abbraccio gemellare che accoglie l’uguale e il diverso nei Marsiglia, se non che:
“Sei smarrito nel cimitero della sete. Amin, sei solo come la sfinge.”
- <arcana sintesi>
In Saggi sul Puer, James Hillman ci racconta la figura archetipica della Vergine come cucitrice dello strappo tra i frammenti scissi del principio maschile, Senex e Puer. Il latte/sangue della Vergine si fa medicina in qualità di nutrimento unificatore, ed è questo ancora una volta un tema mercuriale.
Ibello ci presenta un’anima Stella intatta nel testo “ultimo grado del giudizio”, ed io la accolgo come “occasione”, forse, di coniunctio. Sempre che Amin lo desideri. Sempre che Amin, “colui che restò nel noncanto”, voglia o possa cantare congiuntamente oltre il mondo lunare del sogno.
“La Vergine si chiama Xanita. Xanita conosce il teorema dei roghi, sa leggere il crisma del sangue, il sigillo della fiamma sui covoni. Voleva raggiungere il mare, lo zenit del diluvio.”
E ancora
“Amin, avrai una sola occasione,
una sola freccia da scagliare controsole.
Seleziona con cura
l’abisso entro cui implodere.”
Ma qual è l’elemento che dalla figura intensa di Xanita offre uno scorcio Kairos di creazione sintesi? La consapevolezza del sogno? La colpa dell’amore originario?
“Rivelo la sintassi del crollo:
un urlo angelicato, non si muore.
Vita sempre sognata, mai vita.”
*
“Io sono Giovanni
e non ho mai chiesto di essere amato.”
Lascio senza parole un’ipotesi di risoluzione, invitando i lettori ad addentrarsi nella seconda parte del procedimento poetico ibelliano, partecipando alla cottura silente del verso. Ogni Grande Opera che si rispetti richiede, di fatto, l’avvio di un’esperienza personale, per giungere prima o poi alla consapevolezza di Dio – “Be aware of God”. Io posso ancora aggiungere due elementi nell’alambicco, prima di concludere.
Uno.
Al femminile. In primo luogo vi porto una traccia di estratti sparsi, citazioni tratte da La casa dell’incesto di Anaïs Nin, nella lacerazione dell’unità e nello sforzo per ricostituirla.
“Non mi sposo né muoio.”
“Se soltanto potessimo fuggire tutti da questa casa dell’incesto, dove negli altri amiamo solo noi stessi, disse il Cristo moderno.”
“Il sole era stato inchiodato sul tetto del cielo e la luna era stata immersa profondamente nella sua nicchia orientale”
e ancora:
“La notte mi avvolgeva, una fotografia staccata dalla cornice. La fodera di un mantello lacerata nel mezzo come le due valve di un’ostrica. Il giorno e la notte, scollati, e io cadevo in mezzo, senza sapere su quale strato riposavo, se fosse l’alta, fredda e grigia foglia dell’alba, o l’oscuro strato della notte.”
Due.
Testi di Giovanni Ibello. Scelgo tre componimenti per chiudere questa riflessione, lasciando aperto il viaggio attraverso le terre di Amin:
“Torno allo stato embrionale della vita
nel sonno ibrido del feto,
dove un diagramma di materia nuova
riproduce fedelmente
il calco delle ossa
la nomenclatura delle vene
e un incavo d’ali nelle scapole.
Questa è la divinazione dei corpi.”
*
“Non so cosa amo,
ma so cosa feconda il mio verso:
fare del corpo la misura del tremendo.
Non mancare
questo appuntamento / con l’osceno,
l’uomo che si dispera sopra i seni.”
*
“In un sesto di vento
il chiurlo feconda il buio,
un fiore mezzo sacro
che ancora gemma nel sonno.
Nessun uomo, pensai
si salva da un’infanzia felice.
Nella babele del quasi giorno
io non sono solo.
•
L’autore
Giovanni Ibello vive e lavora a Napoli. Nel 2017 pubblica il suo primo libro, Turbative siderali (premio Città di Como Opera Prima e premio dell’Osservatorio Letterario fondazione Lermontov). I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue tra riviste, lit-blog e antologie di poeti italiani all’estero. Nel 2018 si aggiudica il premio Città di Fiumicino per la sezione “Opera inedita” con una prima versione del poemetto Dialoghi con Amin. Nel 2020 una sua antologia poetica viene selezionata e pubblicata in Russia dall’editore Igor Ulangin per la collana “Contemporary Italian Poetry” diretta dal critico e slavista Paolo Galvagni (traduzioni di Tatiana Grauz). Nel gennaio del 2021 inaugura la rubrica “I poeti di trent’anni” curata da Milo De Angelis per la rivista “Poesia” di Crocetti.
